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Corso di Bioetica

 ANNO ACCADEMICO 2013/2014

               Il prossimo mercoledì 9 aprile 2014 alle ore 16
 presso il Centro Didattico della Facoltà di Medicina e Chirurgia,
 largo del Pozzo, 71 Modena - AULA P 01 -

 si terrà la quinta lezione del dodicesimo corso
 "Nuovi Orizzonti della Bioetica" - Etica della prassi medica -
 diretto dal prof. Giovanni Battista Cavazzuti dell'Università di Modena e
 Reggio Emilia.

          Interverrà con una relazione su:

   ***“Curare la morte”: riflessioni sul fine-vita***

                GIOVANNI  PINELLI
  Direttore U. O. Medicina D'Urgenza - Pronto Soccorso –
      Terapia Intensiva Medica      Azienda USL Modena

 La S.V. Ill.ma è invitata.

 prof. Maria Teresa Camurri
 Presidente Cultura e Vita
 www.culturaevita.unimore.it


“Perché così tante persone muoiono male quando noi sappiamo come curarle
bene? – Cosa vorremmo per la nostra morte?”
Questo è il grido d’ allarme lanciato da John Ellershaw, professore di
medicina palliativa di Liverpool, in un editoriale del British Medical
Journal del Luglio 2013. Sembra un paradosso ma corrisponde molto spesso
alla realtà dei fatti. Il “fine-vita”, termine utilizzato  per indicare
sinteticamente l’ultima fase della vita che conduce inesorabilmente alla
morte o per cause “naturali” o come esito di un evento patologico
irreversibile, è un tema di cui si discute molto soprattutto sui media, ma
che in realtà non viene affrontato nella sua complessità e negli aspetti
più veri. E’ un argomento che non viene affrontato nei corsi di Laurea o
di Specializzazione o nei corsi di formazione per il personale sanitario.
Come se il tema non fosse proprio della professione sanitaria o si
trattasse di una sorta di cartina al tornasole dell’atteggiamento
culturale dominante nei confronti dell’ evento morte, qualcosa di cui si
vuole negare l’esistenza, qualcosa che deve comunque essere “allontanato”.
I dati a nostra conoscenza dimostrano però che nei paesi occidentali si
muore sempre più spesso in Ospedale e soprattutto per cause prevedibili al
momento del ricovero, e in Ospedale molto spesso il paziente che è alla
fine del proprio percorso di vita non è visto come un “morente” ma al pari
degli altri o più degli altri pazienti è sottoposto a trattamenti e
indagini che hanno il solo scopo di spostare un po’ più avanti un evento
ineludibile. Fenomeno dovuto ad un atteggiamento molto diffuso dell’agire
medico definibile come “difensivo” (“ho fatto tutto il possibile”), ma
ancora di più è espressione di una incapacità ad accettare la morte come
un evento che fa parte integrante della vita, di una incapacità a
“guardare con gli occhi del paziente”, che molto spesso vive una
condizione di estrema sofferenza in assenza di un obiettivo
ragionevolmente perseguibile. Il problema del sostegno ad oltranza della
vita o del prolungamento della morte (in base al lato da dove si guarda) è
particolarmente critico nelle terapie intensive, dove si hanno a
disposizione risorse tecnologicamente sempre più sofisticate in grado di
mantenere in vita i pazienti anche in condizioni gravissime per un tempo
prolungato Le equipe medico-infermieristiche di tipo intensivistico sono
oggi più che mai chiamate ad una forte e non delegabile assunzione di
responsabilità nei confronti della decisioni sul fine-vita. Sono chiamate
più di altre ad un mutamento radicale della condotta quotidiana che deve
tendere ad evitare terapie “futili” (ossia prive di un obiettivo
significativo per il paziente ma tese solo a sostenere artificialmente una
funzione vitale) e a cercare la condivisione più ampia possibile sulle
scelte strategiche per ogni paziente: questo dovrà e potrà essere ottenuto
attraverso una “umanizzazione” e una “apertura” non solo fisica ma
soprattutto culturale  dei reparti di cura nei confronti di tutti coloro
che partecipano in modo affettivo alla vita del paziente.
Questo cambiamento diventa una necessità nel nostro paese in virtù di un
vuoto legislativo sul tema delle “disposizioni anticipate di trattamento”,
strumento che sancisce l’alleanza terapeutica tra paziente e curanti anche
quando il primo si trovi nell’impossibilità di poter comunicare.
La grande responsabilità dei clinici oggi è quella di superare  nei fatti
le ipocrisie e l’atteggiamento paternalistico dei politici e di proporre
una medicina realmente “orientata al paziente”.